| Miciamiao |
| | Deep Purple, il colore viola A trentasette anni dalla sua nascita, il gruppo torna in scena con un nuovo disco e un pugno di ricordi Giovedí, 06 Ottobre 2005
Uffici stampa scatenati, party organizzati con tutti i crismi per accompagnare il sospirato preascolto, pubblico di appassionati e non in fervente attesa, televisioni collegate, lanci promozionali milionari. L’estate 2005 ha confermato che nel circo rock il nuovo che avanza non emette che squilli di tromba in sordina. Un ferragosto passato sotto il segno dei Rolling Stones. L’ennesimo sussulto di un leone mai domo, il segno che la tradizione premia, se non nella qualità, almeno nel conto in banca. Le leggende sempre sulla cresta dell’onda, quindi. Una regola che vale per tutti? Qualche settimana fa un altro squillo, questa volta di telefono, annuncia l’arrivo in Italia dei Deep Purple, proprio loro, nelle figure di Ian Gillan, storico urlatore di un’epoca che non c’è più, e di Roger Glover, macchina ritmica a quattro corde, eroi di un rock che tanti anni fa provava ad abbattere le barriere del suono.
Una serie di interviste, qualche firma regalata sulle copertine ingiallite di gloriosi 33 giri, magari anche due chiacchiere sul nuovo album tinto di profondo porpora. Si chiama Rapture Of The Deep, un’estasi in realtà attesa da pochi. I Purple sono una di quelle leggende che provano a proseguire lungo una strada priva di riflettori, mentre il mondo circostante sembra far spallucce. Eppure si tratta dello stesso nome che a nel biennio 1972-1973 si fregiava del titolo di “biggest band in the world”, a cavallo di un trittico di album la cui punta di diamante era rappresentata da due caldissime notti registrate sui palchi giapponesi. Poi, improvvisamente, la crisi, le cui ferite non sono mai state del tutto rimarginate: "Eravamo troppo giovani - prova quasi a scusarsi Ian Gillan, nelle vesti di vecchio saggio del rock - e per di più alle prese con un successo enorme, difficile da gestire. E poi il management che aveva l’onore di rappresentarci comiciò a lavorare pensando più agli interessi finanziari della faccenda che ai protagonisti principali che la portavano avanti. Cioè noi. E dopo un tour de force di quattro anni forse avremmo meritato un momento di riposo. Ma qualcuno non era d’accordo. Questo modificò velocemente i rapporti in seno al gruppo provocando una frattura che può apparire senza senso. Ma solo alla luce dei fatti odierni. Perché al tempo eravamo veramente stanchi, con qualcuno che provava anche a costruirsi una famiglia. Questione di priorità differenti". Un brusco salto nell’incertezza dei nostri giorni, un album nuovo a due anni dall’imbarazzante e misconosciuto Bananas, e la solita domanda: che senso ha continuare la saga Purple, che tra l’altro ha perso il magico Hammond di Jon Lord? "I Purple nei negozi con qualcosa di nuovo nel 2005 è la testimonianza che, in fondo, siamo stati fortunati - dice un compassato Roger Glover, bassista dall’abbigliamento sdrucito e dalla barba incolta - nella nostra carriera abbiamo raggiunto traguardi solo sognati dalla maggioranza di molti colleghi. Ma, onestamente, non ce n’è mai fregato niente di fama ad alti livelli, dischi al numero uno e apparizioni televisive. L’unica vera molla che ha portato i Purple a lanciarsi verso il quarantesimo anniversario è sempre stato quello di poter far sentire la nostra musica ovunque. Sì, proprio di musica si tratta, anche se oggi può apparire insensato, che non si parli di mode da rincorrere o di trend da assecondare. Comporre ci rende uniti e forti". E come la mettiamo con l’idea di rock come musica giovane, come strumento per ottenere rispetto, per raggiungere la gloria imperitura, per sentirsi sexy? "Qualche volta è ancora sexy - borbotta Gillan - ma è anche onesto, chiaro, non pretenzioso, a volte può contenere un messaggio forte. Questi sono ancora oggi i Deep Purple. Ma forse una soluzione al tuo quesito potresti trovarla salendo sul palco mentre stiamo suonando. Ti accorgeresti del livello di interazione che si crea con il nostro pubblico, è come una droga che dagli occhi invade tutto il corpo. Una sensazione che qualunque performer non potrà mai dimenticare. Rimane dentro per sempre". "Possiamo risultare obsoleti, lo ammetto - rilancia Roger Glover - dipende però di cosa stiamo parlando. Non abbiamo speranze di fronte a giovani tutti agghindati, più pronti di fronte a una telecamera che a impugnare uno strumento. Quello però è show business. Può essere divertente e anche duraturo se ci sono dei contenuti dietro, come è accaduto con Alice Cooper, giusto per fare un esempio, ma il più delle volte scompare tanto repentinamente quanto velocemente si era presentato. Si tratta di qualcosa di effimero". Ian Gillan prosegue: "Ok, all’inizio di un’avventura di successo all’interno di una rock band può essere estremamente eccitante entrare a far parte di un mondo governato da regole stravaganti. Ti senti bene, fai qualcosa di eccitante, sei ammirato, ma non puoi basare tutta la tua vita alla ricerca di un’immagine. Prendi le heavy metal band: una sola uniforme, un’unica emozione. Che poi è la rabbia, come si evince dalle copertine dei dischi o dalle foto sui magazine. E tutti digrignano i denti e urlano: siamo ribelli. Ma quando mai?! Lo trovo noioso...".
(intervista di Davide Sechi. Continua su "Rockstar" di ottobre...)
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